venerdì 18 luglio 2014

L'era tutto giusto, Gino, ma comunque tutto da rifare


Siamo nel 1940. Bartali, già vincitore di due Milano-Sanremo, due Giri d'Italia, un Tour de France e tre Giri di Lombardia, buca. Ripara la foratura, riparte e mentre si sta per ricongiungere col gruppo di testa, un cane gli taglia la strada e lo fa cadere, procurandogli fastidiosi dolori al femore. La Legnano, la squadra di Gino, decide di puntare su un giovane e sconosciuto gregario dal fisico improbabile, di nome Fausto, voluto proprio dallo stesso Bartali. Coppi è al primo Giro d'Italia, non ha ancora vent'anni, è praticamente un lattante in uno sport in cui anche allora si continuava a correre e a vincere ben oltre la trentina. L'altro è Bartali, un semidio, e forse sarebbe il caso di togliere semi, dell'Italia sportiva di allora, in cui il ciclismo faceva premio su qualsiasi altro sport, calcio compreso ed era, aldilà della frusta e ormai malcelata retorica di regime, uno dei pochi motivi di orgoglio italiano all'estero. Ebbene, il semidio potrebbe puntare i piedi (d'altra parte è Bartali), potrebbe ritirarsi (d'altra parte le ferite parlano da sole) e invece no, accetta di diventare gregario del gregario e lo porta a vincere il Giro d'Italia. E non è un modo di dire, ce lo porta proprio di peso. Prima viene sedotto da quel ragazzo col fisico da scartatore di golia ma una capacità cardiorespiratoria da Guinness dei Primati, capace di fargli pompare sangue e ossigeno anche quando gli altri hanno la spia della riserva accesa, che nell'undicesim tappa, da Firenze a Modena, parte con una fuga da lontano, mulina le gambe in centodieci chilometri di sofferenza in cui attacca l'Abetone come se fosse un cavalcavia, affronta il freddo, la pioggia e la grandine e arriva nella città emiliana con un distacco abissale, quasi quattro minuti, sul suo più immediato inseguitore, indossando la sua prima maglia rosa. Poi però quel ragazzo col naso ancor più discutibile del suo lo fa anche arrabbiare. E non poco. Siamo alla sedicesima tappa, Coppi sembra ormai destinato ad arrivare in rosa a Milano ma il suo enorme cuore è custodito da un fisico di cristallo, quello che lo porterà a morire precocemente, complice la malaria, poco più di vent'anni dopo. E il fisico presenta il conto. Da Trieste a Pieve di Cadore si affrontano rispettivamente le impegnative (eufemismo) salite del Falzerago, Pordoi e Sella. Sul Pordoi, Fausto va in crisi, le gambe diventano di legno, lamenta dolori gastrici (si parlò di congestione da uova, erano veramente altri tempi), addirittura mette giù il piede e palesa l'intenzione di abbandonare il Giro. Bartali è davanti a "tirarlo" sulla salita, come l'ultimo dei gregari, quando si accorge del tutto. Scende dalla bicicletta e con metodi non proprio montessoriani - dopo una scarica di insulti, prese la faccia di Coppi la infilò nella neve che incorniciava le strade del versante bellunese del Pordoi e per non farsi mancare niente gliene mise anche po' sotto la maglietta, sempre ricordandogli le umili origini di entrambi e i sacrifici fatti dai genitori per assecondare la loro passione - lo rimette in sella, urlandogli una delle frasi che rimangono leggendarie per gli appassionati "Coppi, sei solo un acquaiolo, ricordatelo!", che nel gergo del pedale corrisponde a quei ciclisti che sono deputati a portare l'acqua per i loro capitani, uomini di fatica che non avendo talento non conosceranno mai la gioia della vittoria. Anche se una versione più goliardica vuole che il buon Gino, amante del buon mangiare e del buon bere, volesse punzecchiare Fausto, uno dei primi atleti maniacali nel rispettare una dieta rigorosissima. Fatto sta che Coppi si rimette assieme in qualche modo, riesce ad affrontare anche il Sella e va a vincere il Giro d'Italia. Il giorno successivo l'Italia entra in guerra, Coppi è mandato in Africa a combattere come fante della Divisione Ravenna e viene catturato dagli inglesi che, riconoscendolo, lo trattano coi guanti bianchi e gli accordano addirittura il permesso di allenarsi durante il periodo di prigionia. Non ci fosse stata quella sfuriata sul Pordoi, chi lo sa cosa sarebbe successo...magari sarebbe stato lo stesso fatto prigioniero dagli inglesi, sarebbe stato un signor nessuno come i suoi commilitoni e probabilmente i suoi parenti non avrebbero avuto nemmeno un luogo dove piangerlo ma è inutile farsi tante domande: Ginettaccio era fatto così.

Siamo nel 1948. L'Italia è uscita malconcia dal Ventennio e dalla guerra. Le elezioni politiche del 18 aprile hanno decretato la vittoria più schiacciante di un partito politico nella Storia d'Italia: la Democrazia Cristiana piglia la quasi maggioranza assoluta dei voti e impone la sua centralità nella vita politica del Paese, centralità che verrà perpetuata per i successivi 44 anni. Il Partito Comunista, e soprattutto la sua base, è però in subbuglio, un subbuglio dovuta ad una serie di disillusioni. Quella seguita all'esito del voto (il precedente delle elezioni per la Costituente aveva fatto ben sperare), quella seguita alla percezione di una rivoluzione tradita (la sensazione di aver inutilmente combattuto e di aver inutilmente visto morire amici e parenti durante la Resistenza), quella seguita al sempre più probabile ingresso dell'Italia sotto l'ombrello della NATO (recidendo nel profondo i legami colla "Patria dei lavoratori" come allora veniva chiamata l'URSS). In questo scenario, il diavolo ci mette la coda sotto la forma di uno studente, Antonio Pallante, che spara cinque pallottole calibro 38 tra la schiena e la nuca del segretario del PCI, Togliatti. L'Italia è sotto-shock: incidenti, scontri e manifestazioni causano una serie di morti e migliaia di feriti, a Torino viene sequestrato l'Amministratore delegato della FIAT Vittorio Valletta, le linee telefoniche e ferroviarie collassano a causa degli scioperi. Il pericolo di un'insurrezione armata, colle armi mai consegnate dopo la fine della guerra e occultate nei nascondigli della struttura clandestina del PCI, è dietro l'angolo. Degasperi, segretario della DC e Presidente del Consiglio, telefona a Bartali che è in Francia alle prese con un Tour che dopo un inizio difficile sta sorridendo al toscano. Manca però ancora la maglia gialla, da dieci giorni sulle spalle del francese Bobet. Il giorno successivo è quello della tappa regina di quell'edizione: il percorso prevede, nell'ordine, Galibier, Croix de Fer, Portet, Coucheron e Granier. Gino vince la tappa, indossa la maglia gialla, la porta fino a Parigi e diviene l'unico corridore della storia ciclistica a vincere due Tour a distanza di dieci anni. Non si sa cosa si siano detti in quella telefonata, la leggenda vuole che Degasperi l'abbia quasi supplicato di vincere la tappa come "arma di distrazione di massa", Bartali ha sempre smentito, pur ammettendo la telefonata, fatta solo, a suo dire, per sincerarsi delle sue condizioni. Viene difficile pensare pensare che un Presidente del Consiglio di un Paese sull'orlo della guerra civile telefoni ad un ciclista per chiedergli come stava ma è inutile farsi tante domande: Ginettaccio era fatto così.

Siamo nel 1952. Galibier, la salita più evocativa della storia del ciclismo, quella che garantisce gloria imperitura a chi riesce a spianarla, a chi la percorre più velocemente per abbreviare la propria agonia. C'è una foto. C'è La Foto. Chiunque pensi al ciclismo, chiude gli occhi e se la ritrova nelle prime cinque immagini. C'è una bottiglia e ci sono due mani destre. Una è quella di Coppi, l'altra è quella di Bartali. Il primo davanti e l'altro dietro. Chi passa la bottiglia a chi? Nessuno dei due l'ha mai detto, anzi è più probabile che chi la passò abbia (quasi) intimato all'altro di non dirlo. La verità è fin troppo semplice: basta guardare chi ha il portabottiglie ancora pieno e chi l'ha completamente sguarnito. Dopo più di sessant'anni non si sa ancora chi l'abbia passata a chi e probabilmente non si saprà mai. Viene difficile pensare che un ciclista col portabottiglie completamente sguarnito passi la sua ultima bottiglia ad un avversario con almeno due bottiglie ancora disponibili ma è inutile farsi tante domande: Ginettaccio era fatto così.

Ma soprattutto siamo nel 1943. Siamo nell'inverno peggiore della storia recente italiana: freddo come sono stati solo quegli inverni, fame come ce n'è stata solo in quegli inverni, guerra, tanta guerra, quella peggiore: la guerra civile. Gino Bartali, professione: riparatore di biciclette (ebbene sì), aderisce alla DELASEM (Delegazione per l'Assistenza degli Emigranti Ebrei). Fingendo di allenarsi, trasporta nel telaio della bicicletta documenti falsi tra Toscana e Umbria, contribuendo a salvare la vita a centinaia di ebrei, oltre a quelli che ospitò direttamente a casa sua. Gli ultimi cinque mesi di guerra se li fa da ricercato, con pena prevista non l'affidamento in prova ai servizi sociali ma il muro. Questa era (quasi) riuscito a tenerla nascosta a tutti ma alla fine gliel'hanno scoperta. Per fortuna era già morto quando Ciampi gli conferì la medaglia d'oro al valor civile e quando, pochi mesi fa, lo Yad Vashem (il museo israeliano che ospita la memoria della Shoah) l'ha nominato "Giusto fra le Nazioni", un riconoscimento che va a chi è riuscito a salvare la vita anche di un solo ebreo durante le persecuzioni nazifasciste. Per fortuna, dicevamo, perché altrimenti sarebbe riuscito a smentire anche quello perché Ginettaccio era fatto così.

Sì, forse era fatto così. Della pasta migliore. Un bicchiere di vino e la richiesta al gregario che passava davanti alla porta della sua camera durante un giorno di riposo di andare a vedere se "Quei signori nella sala da fumo, che ho sentito essere italiani, hanno un pacchetto di Nazionali, ché queste Gauloises sanno di niente". L'era tutto giusto, Gino, e proprio per questo tutto da rifare.

martedì 8 luglio 2014

Trenta giorni



Siccome nella barzelletta vivente che è questo posto mancava solo il giapponese, è arrivato. Anzi, la giapponese. Sorprendentemente per le abitudini dei figli del Sol Levante parla un inglese abbastanza fluente. In compenso non capisce una parola di italiano. Anzi, lei credeva di capirne qualcuna, poi gli è stato spiegato col giusto tatto che "Vaffanculo" non è la risposta più urbana per porgere il proprio garbato diniego. No, Harumi, "non proprio" non si traduce con "vaffanculo". Fortunatamente, prima della grande scoperta, ha sfanculato solo tecnici e operatori, anche se per lei, che mi ha detto che in giapponese non esiste manco il "No" (sarà vero?), è stato un grande trauma. Stiamo riallocando dispositivi all'interno dell'impianto e lei ieri era la mia ingegnerA di linea. Io, lei e l'altro tecnico abbiamo amabilmente chiacchierato durante il turno. Lei è affascinata dal fascino che il Giappone esercita su noi occidentali, io le ho detto che sono l'unico occidentale a cui del Giappone non frega un cazzo, non ho mai letto un manga, non guardavo neppure Dragonball - volevo anche dirle che hanno tutti la faccia in due dimensioni, che hanno la pelle gialla perché pisciano controvento e che se l'Oriente finisse col Pakistan si starebbe tutti molto meglio ma poi mi sono trattenuto perché non volevo apparire troppo chiuso nei confronti delle culture inferiori - e che le uniche cose che apprezzo del Giappone sono i calciatori (non è vero), le idol (è vero) e raccontare dell'omicidio Furuta ai più impressionabili tra gli amici e i parenti. Fatto sta che con giubilo e gaudio, nonché ripetuti indici (suoi) puntati sulla testa (sua) ad indicare l'igiene mentale della testa (mia) andiamo in mensa, dove per la prima volta dopo due mesi sono comparsi quei legumi noti al mondo come ceci (risotto alla greca).
Li vedo e sono felice, di una felicità inesprimibile a parole. Sono talmente felice, che potrei anche morire da un momento all'altro. L'autoctono mi dà le solite tre scucchiaiate di riso, io vorrei oltrapassare il vetro e pigliarlo per il bavero ma mi limito "One more, please", lui capisce che glielo avrei ripetuto almeno altre due volte e me ne dà subito altre tre. Caracollando dalla gioia mi dirigo verso il tavolo con un passo tipo Giulio Cesare quando passava sotto l'Arco di Trionfo. Scucchiaio. Eh, insomma, il riso era occhei ma i ceci: DURI COME IL MURO, roba da lasciarci lì una mezza arcata dentaria. Evitando scene tipo Fantozzi alla cena di gala a casa della Contessa, guardo il mio dirimpettaio, che viene dalle mie lande, e gli dico: "me paren i balet de sciopp" - mi sembrano i pallini del fucile. In un posto normale questa non sarebbe dovuta neanche essere una battuta, ma in questo luogo di desolazione devo essergli sembrato Woody Allen e inizia a ridere di gustissimo, diventa paonazzo, manca poco che si strozzi. Rido con moderazione del suo contorcersi dalle risate, lei chiede una spiegazione, poi esige una spiegazione, poi intima una spiegazione. Alla fine glielo traduco e succede una roba che pensavo succedesse solo in "Mai dire Banzai" (a proposito della mia ampia cultura giapponese): ride come lui di una battuta non solo spiegata ma pure tradotta. Ride e ride, ad un certo punto m'irrita (ma chi ha insegnato a ridere ai jappi? Nitriva anziché ridere), vorrei replicare l'omicidio Furuta e alla fine mi dice: "You're so fucking funny guy".

Ora, un mese fa durante una conversazione mando un messaggio alla Zorza in cui come al solito debbo aver commesso un imperdonabile errore, dopo essermi molto scusato "Se Le porto la palla, mi fa giocare un po'?", lei inizia a ridere e quindi è costretta a tradurre il tutto alla sua amica-collega Poppy (Poppy...nomi che pensavo esistessero solo nei libri d'inglese delle medie) e questa gli dice "Your husband is so fucking funny guy". Due settimane fa in preda ad una crisi d'ansia per le pene d'amore di un'altra amica-collega - che praticamente si vede con uno, ci passa le serate, tutto bravissimo, tutto bellissimo, tutto benissimo, poi finisce la serata, rimangono in macchina, parlano di ogni argomento dello scibile umano ma lui sia mai che ci provi - mi chiede: "Secondo te, dal tuo punto di vista maschile, cos'è che lo frena? Che poi lo chiedo a te che in realtà sei più mezzafiga di tutte noi messe insieme ma vabbé" e io, sempre scusandomi, le dico "Gli direi: Picchiami, ma baciami". Lo riferisce alla sventurata che le risponde: "Georgia, you're so fucking funny girl" - la signora si appropria anche delle battute altrui ma il fucking funny ero io, vergogna. Tra le altre cose poi l'amica non ha fatto come le avevo (mirabilmente, ammettetelo) suggerito e infatti il nostro Porfirio Rubirosa 2.0 s'è fatto di nebbia.

Forse dovevo andare a fare il comico per stranieri. Se penso che Iacchetti e Boldi si sono campati la vita con due sketch merdi (i due di Boldi: "Faccia da pirla" e "Tatatatatachicardia" perché Iacchetti manco quelli aveva) e io sono qui in una buca colla prospettiva di morire a cinquant'anni di enfisema mi viene (anche) la depressione. E' iniziato pure Ramadan ma tra i pochi pregi di questa prigione c'è che si avverte meno rispetto all'anno scorso e poi ormai siamo all'ultima boa: 30 giorni alla felicità. Me lo dico da solo: daje, Fili'. E quest'anno per la prima volta dopo un lustro non si scarpina in vacanza. L'obiettivo è sdraiarsi giorno 8 agosto e rialzarsi giorno 23. Anzi, preferibilmente mettersi di lato e rotolare verso Fontanarossa per sprecare meno energie possibili. Ovviamente sempre con crema solare protezione 700 perché anche in vacanza non bisogna mai dimenticarsi che abbronzarsi è male quasi come le scarpe aperte. Il malvagio sole è sempre in agguato e non bisogna farsi trovare impreparati.