venerdì 26 settembre 2014

Un anno dopo

 
26 settembre 2013 - 26 settembre 2014

"Tu, che hai dato alla mia vita il suono del tuo nome
Tu, hai trasformato tutto il resto in uno sfondo
Tu, della mia esistenza sei l'essenza"

Io, che mai e poi mai avrei detto "mia moglie" e ora invece mi riempie il cuore, la testa, tutto.

mercoledì 17 settembre 2014

Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, decisione e velocità d'esecuzione



Il primo giorno che entrai nella divisione sultanatica della company ci dissero che il dress code non è stringente come in Italia - comunque niente di eccezionale: camicia e barba rasata - ma che si può venire a lavoro anche in T-Shirt. Ricordo l'ultima postilla "Senza esagerare, mi raccomando". Penso sia una procedura standard, compreso il "Senza esagerare, mi raccomando". Ieri Mattia si è presentato al lavoro con una maglietta con un Hitler dalla sognante espressione e la scritta "I have a dream". Alle 14 ha iniziato il turno, alle 14.30 girava con una T-Shirt bianca. "Mah, L. (il nostro ingegnere di linea, ndF) m'ha rotto la minchia. Non c'ha proprio un cazzo da fare, quello".

L. è proprio una di quelle L. là, tipo Primo, tipo Carlo, tipo Rita. Lui immagino che non ne sappia niente, anche perché per lui è già tanto essere consapevole della propria esistenza in vita.

Dopo il corso di tedesco e quello di boxe, dovrò iscrivermi a quello per non volergli bene perché è ogni giorno sempre più difficile.

mercoledì 3 settembre 2014

The Italian Job



Tutto cominciò una mattina di fine agosto. Era usanza che io facessi una settimana di vacanza con mio babbo che per contratto aveva cinque giorni di ferie in più di mammà. In quella settimana ci si preparava alla scuola, si finivano i compiti e si facevano 2-3 gite che iniziavano al mattino e si chiudevano in giornata. Quel giorno però dovevano arrivare a casa nostra i muratori a sistemare le tegole del tetto. E i muratori arrivarono. "C'è un problema, il ragazzo che doveva venire con noi, stanotte è stato male e quindi siamo solo in due, ci servirebbe qualcuno a darci una mano". Qualsiasi altro genitore si sarebbe offerto. Lui no. Offrì me. Nove anni. I muratori rimasero perplessi ma alla fine dissero che andava bene. Il mio lavoro consisteva nel pigliare la corda con nodo scorsoio che calavano dal tetto, infilare le tegole, chiudere il nodo e fargli segno di tirarle su, pigliare la caldarella piena di detriti che calavano dal tetto, svuotarla nel cassone del camion e fare segno di tirarla su. Quattro ore in cui mi divertii anche, debbo dire, se non fosse stato per quei continui "Attento eh, attento". E alla fine, oltre al divertimento, mio babbo mi diede anche settantamila lire, probabilmente per comprare il mio silenzio. Ma chi m'ammazzava? Infatti tutto orgoglioso lo dissi a mammà quando la vidi tornare dal lavoro. "Scusa, Fily, spiegami bene la storia" - "Eh, gliene mancava uno e allora hanno preso me!" - "Ma non poteva andare papà?" - "Lui ha detto che dovevo andarci io". Ricordo bene il passo dell'oca, che le è sempre venuto benissimo, con cui salì le scale. Lo affrontò piegando la testa leggermente verso sinistra "Tu sei completamente scemo" - pausa - "Anzi, la scema sono io, che dovevo capirlo da quel dì".

Il primo lavoro vero fu (riprendo un vecchio post)

"[...]Trenta dipendenti, fondata nella seconda metà degli anni Sessanta, in pieno boom economico, facevano tappi, maniglie, cappucci, protezioni, nastri, flange. Tutto in plastica, che iniziava proprio in quegli anni la sua clamorosa scalata al successo come materiale di straordinaria versatilità. 
Alpino, pugile in gioventù, capace, questo vuole la leggenda, di saltare sulla ribalta dei camion (1 metro) con due sacchi da 25 kg di boiacca nelle mani, era noto come "Ul cassù" ovverosia "Il mestolo" per la sua familiarità nel tirare chiavi inglesi del 30 nei confronti dei dipendenti che si fossero resi protagonisti di errori di lavorazione. Lei, che ci ha lasciato a gennaio dell'anno scorso, zitella, era tanto affettuosamente quanto carbonariamente chiamata dai suoi dipendenti schiavi come la "spaccacazzi dei sottotappi" per il suo realismo nel pigliare ordini. "120k sottotappi? Ne abbiamo a magazzino solo 50k!" - "Sìsì, non c'è problema, non ho fretta. Per quando riesce a completare l'ordine?" - "Domani va bene?". 
Col tempo si addolcirono entrambi (lei, ad esempio, negli ultimi anni aveva preso anche l'abitudine di salutare chi incontrava), ma negli anni Sessanta e Settanta il lavoro estivo degli adolescenti del paesello di mio babbo si divideva in due categorie: i promossi andavano a lavorare, i bocciati andavano a lavorare dal Cassù. I suoi metodi educativi si dimostravano più efficaci di quelli della Montessori nel raddrizzare giovinotti spiantati. C'era gente che dopo essere stata bocciata un anno in prima liceo, in quello successivo si laureava in Ingegneria Aerospaziale. Due anni di lavoro dal Cassù ed eri pronto ad entrare nella Legione Straniera. Come istruttore. C'era gente che tornava a casa e passava la serata a guardare il soffitto. "Cosa c'è?" chiedevano, piene di sensi di colpa, le loro madri "Sto pensando che domani lo debbo rivedere". 
Mio babbo, e il sottoscritto di conseguenza, invece era paraculato, perché nipote della moglie del Cassù, l'unica persona al mondo capace di tenerlo a freno, e quindi con lui il Cassù andava sì di chiave, ma mai superiore al 12. Perché era comunque uno che al vincolo familiare ci teneva.[...]
L'anno seguente il Cassù ebbe un calo di ordinativi che lo portarono a non assumere più per la sola estate, lo venni a sapere proprio a inizio giugno, dovevo pagarmi le prime vacanze a Jesolo (ebbeh, allora...), tutti erano già sistemati e finii a lavorare in nero, per una miseria, e su turni. Ricordo ancora con dolore il terribile turno 22-6 in cui sul tragitto per andare a lavoro passavo davanti al mio bar che proprio alle 21.30 iniziava a popolarsi, con le varie compagnie che lo usavano come luogo di ritrovo per poi trascorrere la serata in altri meravigliosi luoghi. Guardo le immagini dei bambini che lavorano nelle miniere e gli dico, pensando che possano sentirmi, "Eh, se sapeste quello che ho passato io, sorridereste alla macchina fotografica". Il proprietario pagava in nero perché era un amante del rischio: mai fatto lavoro più pericoloso. Realizzavamo reti metalliche con macchine che facevano paura solo a guardarle, le cui uniche protezioni erano le madonne che tiravano gli altri operai. Infatti nell'altro turno un mio omologo (studente che lavorava in estate) parcheggiò una mano dentro una trancia. Inevitabilmente, dato che arrivarono in azienda Polizia Stradale, Carabinieri, ACI, ANAS, AISCAT, AUTOSTRADE PER L'ITALIA e la partecipazione dell'AGIP, ci lasciò a casa tutti. Fortuna volle che comunque avevo già messo via soldi a sufficienza per le vacanze. Poi passammo gli ultimi giorni a rubare dallo spaccio del campeggio ma questa è un'altra storia... 
Al processo, il nostro uomo si difese dipigendosi come un benefattore che toglieva i giovani dalla strada, garantendogli un lavoro. Quando lo venni a sapere capii che questo mondo era popolato anche da gggente che non distingue tra il culo e la faccia. Cogli anni scoprirò che la maggior parte della gggente ha la faccia come il culo.

L'estate successiva Donna Elena decise che DOVEVO imparare l'inglese. E fu Ashley. E furono i nanetti a cui lei aveva iniziato a fare da babysitter. E fu che il nanetto maschio minacciava di modificare il ciclo delle stagione a lacrime ogni volta che mi allontanavo di sette centimetri dalla sua posizione. E fu che finimmo a dividerci i nanetti perché le bimbotte, già allora più sgamate, mi vedevano come Barbablù. E fu che i genitori decisero di farsi dieci giorni in California da soli. E fu che praticamente diventai il padre temporaneo del nanetto. Che poi è stato quello che mi ha insegnato l'inglese. Non ho mai avuto il coraggio di dirlo ai miei superiori, che così capirebbero perché lo parlo bene e lo scrivo come un bimbo di prima elementare. Al momento dell'addio, guance interne massacrate per evitare mariomerolate. Il nanetto quell'anno iniziò ad andare alle elementari. Il primo giorno tornò da scuola dicendo a sua mamma che: "Filippo era un maestro migliore". Se ci ripenso, ricomincio a masticarmi le guance interne. Poi com'è normale che sia i contatti si sono diradati ma quando un mese fa mi ha mandato un'e-mail dicendomi che stava iniziando a pianificare l'anno sabbatico tra high school e college che vorrebbe trascorrere in Italia, ho dovuto ricominciare a masticarmele. Non fu un vero e proprio lavoro ma debbo dire che oltre a mettere da parte qualche dollaro, prontamente sputtanato in canotte NBA che ci volevano due Filippo per indossarle, i racconti delle cose che successero in quei mesi, protagonista il nanetto, sono ancora uno dei pilastri con cui tendo a svoltare le serate-down in locali di dubbio gusto. I bimbotti sono bellissimi, in comode rate da dieci minuti alla settimana.

Arriviamo all'estate dei diciotto anni. Io quell'estate non è che ce l'abbia granché presente. Ho solo presente che al lavoro c'era Lei. Che lavorava con me. Che mi disse No e No e No. Ma allora non esisteva ancora il reato di stalking. Però esisteva il No. Secco e categorico. Per tutti ma non per me. Ché se lei mi chiedeva "Filippo, dove sono le bobine?" io avevo già in mente di prenotare tutte le chiese e tutti i ristoranti del lago la data del nostro del matrimonio. Sapevo tutto di lei: dove abitava, dove usciva, chi frequentava. E allora Facebook aveva quattro mesi e lo conosceva giusto Zuckerberg. Tutto il lavoro di ricerca era farina del mio sacco, c'avevo un dossier tipo Nanni in "Bianca". A distanza di dieci anni posso esprimere un commento sereno e pacato, oserei dire istituzionale: "Ti meriteresti le peggio cose, stronza demmerda. T'ho sacrificato un'estate per l'anima del cazzo!". Anzi, magari per l'anima del cazzo. L'ho rivista a dicembre (lei eh, non l'anima del cazzo). Anzi, mi ha rivisto a dicembre perché io mica l'ho riconosciuta, dato che se allora pareva una bambolina, ora la vedrei bene come matrioska maggiore. Le mie maledizioni possono essere lente ma sono inesorabili.

L'estate successiva lavorai in una cooperativa che durò un'estate. Ma non per colpa mia, che futuro poteva avere una cooperativa in cui si sbucciavano e lavavano verdura e frutta? Peraltro popolata da "lavoratori" anche simpatici ma storditi in una maniera tale che ti chiedevi se avevano trascorso la loro infanzia in una cassa del Number One. Un episodio per tutti: andavo a lavoro con quel Booster che ormai maltrattavo da cinque anni e la spia della broda non si accendeva più, per cui facevo benzina ogni tot km. In quei giorni, chissà dove avevo la testa, mi dimenticai di farla e rimasi a piedi sulla strada per andare a lavoro. Sulla stessa strada OGNI giorno incrociavo quello che lavorava nella postazione DI FRONTE alla mia. Sono lì che smadonno perché nell'avantindré dal benziano avrei perso la mezzora quando passa questo in auto. Ricapitoliamo, io sono lì, col motorino parcheggiato a bordo strada in curva, smadonno e arriva lui che mi lavora di fronte e sa benissimo che sto andando a lavoro. Cosa fa? Mi saluta e passa via. Arrivo a lavoro colla rabbia, ma anche il cimurro e pure la leishmaniosi, e questo mi fa: Filippo, ma cosa ci facevi lì? - O razza di pirla, avevo finito la benzina, non si capiva? - Nooooooo, sul serio, ma cazzo dovevi dirmelo: mi sarei fermato. Il TFR lo spesi in mazze chiodate.

Quell'inverno c'era in programma colla morosa di allora di fare un grande viaggio losalcazzodove (poi nell'incertezza su dove fare il viaggio, ci lasciammo) ed essendo sempre a corto di quattrini e non volendo chiederli ai miei, trovai il lavoro definitivo, quello casalingo. Avete presente le cinture colle borchie? I bracciali molto roooock, ecc. Ecco, io mettevo le borchie. A 5 centesimi a borchia. Ricordo il primo giorno di lavoro: da una parte un sacco con 5000 pezzi in pelle (similpelle, dai), dall'altro un sacco con svariate tipologie di borchie. Le recava in mano un simpatico capoarea che mi disse: domani alle 16 passiamo a ritirare. Domani che? Erano le 16, c'erano 24 ore di tempo, mi misi di buona lena e iniziai a mettere borchia su borchia: alcune (me le ricordo ancora: cono, killer, stud, piramide e QW) erano solo da avvitare, per quelle circolari invece c'era una macchinetta in comodato gratuito - il buon cuore, la grande anima, la generosità della casa madre. Alle 17 ero bello soddisfatto. Ma, dai, pensavo fosse più difficile. Alle 4 del mattino avevo ancora 1000 pezzi da fare e non avevo dormito un cazzo. Poi presi il giro (=mi cinesizzai), aiutato anche dal fatto che ogni tanto mi capitava di borchiare abbigliamento sadomaso che mi faceva molto ridere. Poi capii che forse era il caso di cercarmi un lavoro che non mi riducesse tipo il Chaplin di Tempi Moderni.

E iniziò la ricerca di un lavoro definitivo: dopo aver fatto il tornitore (benissimo, bravissimo - ma soprattutto bellissimo - però al termine del contratto puoi andare gentilmente, cortesemente, signorilmente a fare in culo?), l'accompagnatore di camionisti (nel senso che li accompagnavo nei viaggi lunghi), l'omino delle pizze (Brazzers e Naughty America purtroppo rimangono delle - meravigliose - opere di fantasia), il commesso/segretario/insomma quella roba lì in palestra e forse dimentico pure qualcosa, incontrai l'uomo che mi cambiò l'esistenza, lavorativa ma forse non solo, una sorta di secondo padre. Siccome poi la vita è una merda, cinque anni dopo mi e ci lasciò, al termine di tredici mesi di inusitata sofferenza. Per non farla troppo lunga che questo è un post da cazzeggio e poi mi viene il groppo in gola mentre scrivo, questo è quello che lessi al suo funerale.
Hai lottato come un uomo con la brutta compagnia
che non eri mica stanco
che nessuno mai è pronto quando c'è da andare via
hai pregato bestemmiando per la rabbia per tutta l'agonia
per le scelte che stava facendo Dio


Come sempre in questi casi ci sarebbero tante cose da dire, tante emozioni da rivivere, tanti anedotti da raccontare. Uno per tutti, il giorno in cui mi ha assunto. Dunque, cosa conosci o cosa sapresti fare a livello di idraulica? Niente, però ho una discreta motivazione. Derivante da? Non vedo l'ora di andare fuori di casa.
Risata: Beh, mi pare una buonissima motivazione.

Voglio però ricordarti com'eri, pensare che ancora vivi,
voglio pensare che ancora mi ascolti e che come allora sorridi e che come allora sorridi...


Un mestiere che ho amato in maniera viscerale, che solo chi mi ha conosciuto nel profondo sa quantificare la misura del piacere che provavo ogni mattina quando mi svegliavo, perché gli altri non si capacitavano e pensavano che la mia fosse quasi una posa, un mestiere che mi ha fatto apprezzare e vivere in prima persona quella frase definitiva di Primo Levi sulla felicità umana con cui penso di avervi già sfrombolato a sufficienza i maroni e le ovaie: Se si escludono istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l'amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra: ma questa è una verità che non molti conoscono e un mestiere che, in ultima analisi, conto di continuare a fare una volta tornato in Italia, in una maniera o nell'altra. Ché lo so che di questi tempi è come bestemmiare in chiesa ma per me nessun contratto a tempo indeterminato vale determinate sensazioni che si chiamano orgoglio del lavoro ben fatto, piena autonomia nelle decisioni, armonia dell'ambiente lavorativo.